Dopo la “pugnalata alle spalle” arriva l’armistizio con la Francia jpfasufoas jdieci venti ffggffgfgffgpasufpoasdufpoasd

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Esattamente 80 anni fa si concludeva la guerra sulle Alpi occidentali: nella notte fra il 24 e il 25 giugno 1940 arrivò la notizia che il governo francese aveva chiesto l’armistizio. Qualche ora prima analoga richiesta era stata rivolta alla Germania. Per il malfunzionamento dei servizi comunicativi del nostro esercito l’annunzio ufficiale arrivò con un giorno di ritardo rispetto alla pubblicazione sui giornali tedeschi. Era quello che Hitler voleva: dimostrare al “suo popolo” che il trattato iugulatorio di Versailles era stato cancellato. UN PUGNO DI MORTI

Mussolini, entrato in guerra per procurarsi “un pugno di morti” con cui sedere al tavolo delle trattative, usciva umiliato dall’alleato e snobbato dai “vinti”. Del resto su quindici giorni di guerra ne aveva sì e no combattuti quattro.

Dopo la roboante dichiarazione del 10 giugno («La parola d'ordine è una sola, categorica e impegnativa per tutti. Essa già trasvola ed accende i cuori dalle Alpi all'Oceano Indiano: vincere! E vinceremo!») le due armate al comando dei generali Guzzoni e Pintor con capo di Stato maggiore Emilio Battisti schierate nelle province di Aosta, Torino, Cuneo e Imperia, non cercano di penetrare oltre il confine: Mussolini ha telegrafato al Comando unico a Bra, con a capo il principe Umberto di Savoia, che «sia mantenuto contegno assolutamente difensivo».

Si aspetta infatti che il collasso dell’esercito francese provocato dalla travolgente avanzata tedesca a Nord contagi l’Armée des Alpes. Ma anche se Parigi è già caduta e gli italiani restano con le mani in mano, i francesi rispondono, mandando degli aerei a sorvolare Cuneo, con il lancio di qualche bomba, mentre la flotta di Tolone drizza i cannoni contro le aree industriali di Savona e Genova. A Vado uccide 9 civili e ne ferisce una trentina. Anche più pesante il bilancio dei bombardamenti su Torino compiuti da aerei della Raf, partiti direttamente dall’Inghilterra: 17 morti e un numero elevato di feriti e case distrutte. La contraerea italiana non esiste. L’aviazione non è stata allertata, la flotta è stata addirittura mandata a sud a “controllare” Malta.

L’ESERCITO DI GRAZIANI

La guerra è affidata a un’arma sola, l’esercito guidato dal maresciallo Rodolfo Graziani, che ha esperienza solo di guerre coloniali (in Libia e Abissinia), abituato a “vincere facile” con deportazioni e gas asfissianti contro nemici tecnologicamente inferiori e privi degli strumenti con cui documentare la violazione delle convenzioni internazionali. In più lui e il suo vice Roatta sono in perpetua frizione con i superiori Pietro Badoglio e Ubaldo Soddu, sottosegretario alla guerra.

Il 16 giugno il primo ministro francese Reynaud lascia il posto al maresciallo Pétain, dalle non celate simpatie filotedesche. Il Duce teme che la guerra finisca troppo presto e dà l'ordine di passare all'offensiva. Poi lo revoca, perché è stato invitato da Hitler a Monaco, da cui però torna a mani vuote. Roatta telegrafa a Battisti: «Riprendere immediatamente piccole azioni offensive su tutta la frontiera alpina».

Quella notte, 19 giugno, si scatena il maltempo: neve e pioggia proseguono nei giorni successivi. I soldati italiani sono saliti in montagna con l'equipaggiamento estivo! I combattimenti si svolgono dal 21 e al 24 giugno. I punti nevralgici sono il Piccolo e Gran San Bernardo, la zona Moncenisio-Monginevro, il colle della Maddalena, ma anche la displuviale Maira-Varaita con l’Ubaye, e Mentone.

I francesi sono in netta inferiorità numerica: 50 mila uomini contro più del doppio. Altri 200 mila soldati italiani restano con il grosso delle artiglierie e degli automezzi, nei fondivalle intasati per la viabilità inadeguata. I transalpini dispongono però di efficienti truppe alpine (gli Eclaireurs skieurs) e soprattutto di fortini razionali e ben armati. I loro tiri falcidiano le colonne di alpini e fanti.

BILANCIO DEI CADUTI

Alla fine da parte italiana, senza dimenticare le vittime di Torino e Vado Ligure, si conteranno 642 caduti, 616 dispersi, 2.631 feriti, 2.151 congelati. I francesi accusano appena 20 morti e 84 feriti. Non si può parlare di vittoria di Pirro. Mussolini ha conquistato un pugno di mosche: un’unica città, piccola e ridotta a un cumulo di macerie, Mentone, e alcune poche borgate (neppure Comuni) sopra i 2 mila metri, inospitali e difficili da rifornire.

Gli adulatori e i libri di scuola celebrano Mussolini come novello Giulio Cesare: ma certamente l’uomo conosce male la storia romana.

A parte l’ignominia dell’approssimazione e degli errati calcoli politici, che ricade tutta su di lui, il Duce attira sull’Italia la taccia di viltà: molti giornali francesi parlano di «pugnalata alle spalle».

Come Maramaldo infierì sul difensore della repubblica fiorentina Francesco Ferrucci, così Mussolini aggredì alle spalle una nazione ormai piegata dalle armate naziste. I francesi non si considerarono mai sconfitti: lo si sarebbe visto nelle trattative di pace, in cui il pur reazionario governo di Vichy concesse poco o nulla al maldestro invasore. Nascerà anzi oltralpe un risentimento, che nel 1945-46 si tradurrà nei propositi punitivi del gen. De Gaulle con rivendicazioni territoriali che spaziavano da Aosta alla cintura di Torino. Alla fine sarà solo la nostra provincia a perdere Briga e Tenda (e le imponenti centrali elettriche della val Roia). Ma sul fronte orientale nelle trattative di pace l’appoggio dato dalla delegazione francese alle rivendicazioni vendicative della Jugoslavia, sostenuta peraltro dall’Urss, avrà conseguenze non indifferenti nella definizione dei nuovi confini.

DANNI ECONOMICIAnziché recare vantaggi, come avverrà per i tedeschi (requisizione di derrate, materie prime, manodopera, indennità in oro e denaro ecc.), la campagna sulle Alpi fu un’altra botta per il bilancio dello Stato e dell’economia italiana. Da Torino più di 100 mila cittadini abbandonarono la città per sfollare nelle province, diventando pendolari o abbandonando del tutto le attività produttive di operai o di artigiani. Nelle vallate, comprese quelle saluzzesi, settemila residenti furono costretti a trasferirsi per “via ordinaria” (cioè a piedi) ai punti di raccolta a fondovalle e quindi a essere trasportati in provincia di Asti o di Vercelli, abbandonando le case, i raccolti e il bestiame. I beni familiari, quando non caddero preda di saccheggi, vennero svenduti a speculatori. Al ritorno gli sfollati dovettero ricominciare da zero. Inoltre per quell’estate la salita all’alpeggio delle mandrie fu rinviata e quando le strade vennero riaperte solo un numero minimo di malgari ne poté approfittare.E I SAVOIA?

La dinastia regnante in Italia proveniva da Oltralpe. Era stato Vittorio Emanuele II a cedere a Napoleone III Nizza, che con la Corsica e la Tunisia da anni rientrava nelle rivendicazioni territoriali del fascismo. Per neutralizzare, o meglio per coinvolgere i Savoia nella guerra, il comando supremo era stato affidato al principe ereditario. Ma il contributo bellico di Umberto fu nullo. Per tutto il mese non si schiodò da Bra, dove poteva contare su una lussuosa villa, attrezzata con bunker e sulla tenuta familiare di Pollenzo. Alternava parate militari in Piazza d’armi, ricevimenti e visite, ad es. alla colonia elioterapica dei bambini. Gli ordini e contrordini di Mussolini arrivavano via telegrafo e via corriere o telefono da campo trasmessi nelle alte vallate.

L’ANTIFASCISMOPer l’antifascismo militante la guerra fu una iattura. Il barbiere Matteo Beitone da Paesana viene espulso e arrestato al rimpatrio. Stessa sorte tocca al saluzzese Giuseppe Gilio, futuro commissario della 15a Brigata Garibaldi in val Po. Ex combattenti di Spagna come il saluzzese Antonio Risso furono internati, Antonio Balangero di Envie, catturato dai tedeschi e rinchiuso nel campo di Ravaruchka, riuscì ad evadere e unirsi alla resistenza delle Forces Françaises de l’Intérieur.

La guerra contro la Francia fa però nascere un nuovo antifascismo, quasi spontaneo. Solo nella nostra provincia la polizia denuncia 12 episodi di pubblico dissenso. Maturano per lo più nelle vallate dove abbondano gli ex migranti in terra francese.

Né il regime ha più il sostegno che la Chiesa. Per il regime arrivano come un pugno nello stomaco le omelie pacifiste di don Giovanni Gorzegno a Sambuco e don Raimondo Viale a Borgo S. Dalmazzo. Questi per l'effetto "deprimente dello spirito pubblico" la sera stessa viene arrestato e deferito alla Commissione per il confino.

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