I Cavalieri del Lavoro dell’Ancien Régime
Se una lite per l’eredità Riccati fosse scoppiata duecento anni fa, avrebbe sollevato, nei limiti dei mass media del tempo, un’eco paragonabile a vicende come quella dei Caprotti o di altre consimili dinastie del moderno capitalismo. Fra ‘700 e ‘800 appartenevano alla famiglia le maggiori proprietà di Manta e in parte di Saluzzo. Il patrimonio dell'avv. Vincenzo Riccati ammontava a 204 giornate e 94 tavole, quello dell'ex barone Giuseppe Maria Angelo, alias cittadino Joseph, era di 179 arpenti, un decimo dell'intera superficie fondiaria di Manta. La fortuna dei Riccati, per un paio di secoli discreti proprietari terrieri, inizia nel 1701 quando Giovanni con il figlio Giovanni Pietro ottiene la concessione per lo sfruttamento delle miniere di ferro a Paesana. Negli anni successivi impianterà forni e fucine in altri siti delle valli Po e Varaita.
Abbandona la produzione di ghisa e ferro con il venir meno dei boschi da cui si ricava il carbone necessario per l’alimentazione dei forni. Si dedica all’industria che più tira nel neonato regno di Sardegna, quella della seta. La filanda del cav. Vincenzo Riccati arriverà a occupare 38 operaie nel 1795, 68 nel 1814. Con la ricchezza monetaria arrivano anche gli studi: Giuseppe Maria Angelo Riccati si laurea in utroque iure a Torino e percorre una brillante carriera, che culmina nell’intendenza della provincia di Asti (1791). Il re gli concede i feudi di Ceva e San Michele e il titolo baronale nel 1793. L’invasione francese è imminente: da buoni imprenditori i Riccati si inseriscono nel nuovo regime.
Dei molti figli del barone il primogenito Giuseppe diviene ajoint del maire di Saluzzo, Giovanni Pietro entra nella Consulta che deve avanzare proposte sul futuro destino politico-amministrativo del Piemonte. Con l'amico giacobino Felice Bongioanni di Mondovì si schiera vanamente contro l’annessione del Piemonte alla Francia, mentre il fratello Carlo propone l'istituzione di una repubblica che accorpi Torino con Genova. Caduto Napoleone, Carlo pubblica tre ponderosi volumi sulla storia dei “Cento giorni” e sul ritorno dei Borboni in Francia. Servono per riconciliare i Riccati con i Savoia.
Giovanni Pietro è così chiamato a reggere l'ufficio di intendente generale a Novara, Giovanni Giuseppe, diviene vice intendente di guerra. Rischia di rovinare tutto l’ultimo dei fratelli (il quattordicesimo, contando le due sorelle!) Agostino, ufficiale, sospettato di connivenza con i congiurati del 1821. I fratelli Giuseppe e Giovanni Giuseppe rimediano, partecipando il 14 marzo 1822 al raduno torinese in duomo dove i notabili del Regno giurano fedeltà a Carlo Felice. Ad allontanare definitivamente dalla famiglia ogni sospetto Giovanni Giuseppe sposa Teresa Falletti di Villafalletto, figlia del conte Francesco, presidente della Commissione militare che ha giudicato i cospiratori.