La lingua selvaggia di Salvagno

La lingua selvaggia di Salvagno
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Ho conosciuto Claudio Salvagno nel 2007 o giù di lì. Mi aveva accompagnato con quel suo fare discreto e gentile a parlar di poesia occitana con Piero Raina e Janò Arneodo per un video sul bel progetto “Arti vaganti” e, naturalmente, avevamo parlato anche della sua poesia. Da allora abbiamo collaborato altre volte e nel 2013 ho avuto l’onore di presentare “L’Autra Armada” a Saluzzo.

Col suo sorriso, gli occhi brillanti e il fare sincero mi ha portato a scoprire, me ne sono reso conto pian piano, un mondo che avevo sempre guardato da lontano (e con sospetto), quello della poesia “dialettale”, scritta nelle varianti, locali e poetiche, delle nostre valli.

È stato un percorso lungo, il mio, forse perché la poesia, e questa poesia in particolare, necessita di tempi lenti, come lenti sono i passi antichi sui sentieri di montagna, per essere apprezzata. E in fondo è solo recentemente, nel 2018, grazie all’invito rivoltomi da Monica Longobardi, che sono tornato finalmente alla sua, munito di tutto il mio armamentario di studioso per tentarne un’analisi e provare a capire qualche cosa di più della sua magia e della sua forza.

È stata una nuova e quasi inaspettata scoperta: il lavoro sulla sua lingua selvaggia e unica mi ha permesso di leggere con occhi nuovi la densità del suo dire poetico. Le sue parole, scelte con anarchica libertà in ogni dove occitano, nei poeti - i trovatori in primis - e nelle memorie, compongono immagini vibranti e potenti. E questa “scoperta”, che altri avevano fatto prima di me, è arrivata quando il destino aveva ormai reso impossibile il dialogo con l’uomo.

Mi è capitato, lavorando nella promozione delle lingue minoritarie, di dire - e forse persino scrivere - che una delle sfide, certo non l’unica, per queste lingue (e per le comunità che le parlano) è quella di essere veicolo privilegiato per esprimere “verità altre” e strumento per creare bellezza.

La lingua poetica di Claudio fa esattamente questo. E la continueremo a studiare perché ci ha lasciato in eredità un dono prezioso, parole appunto di verità e bellezza, che ci interrogheranno nei tempi a venire e dalle quali potremo partire per comporre narrazioni e tentare di raccontare come forestiers a nos / vivem en sospirant çò que siem jà mai estats, / un desir de país que avem ren agut.

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