La data Il primo congresso si tenne il 21 gennaio 1921, dopo l’abbandono della XVII assise socialista La scissione del Psi a Livorno 100 anni fa: nasce il Pcd’I I comunisti prevalgono a Saluzzo, Barge e Villanovetta

La data Il primo congresso si tenne il 21 gennaio 1921, dopo l’abbandono della XVII assise socialista La scissione del Psi a Livorno 100 anni fa: nasce il Pcd’I I comunisti prevalgono a Saluzzo, Barge e Villanovetta
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Cento anni fa. Era il 21 gennaio 1921, i delegati che avevano abbandonato il XVII Congresso del Psi tenuto a Livorno si spostarono dal teatro Goldoni a un altro, il San Marco, freddo e fatiscente, e, scaldandosi con il canto dell’Internazionale, fondarono il Partito comunista d’Italia (Pcd’I).

Il Partito socialista, da cui si distaccò, fin dalle origini aveva patito di divisioni interne e lotta fra correnti. Tale caratteristica aveva subito una drammatica accentuazione con lo scoppio della Grande guerra. Il Psi, fedele alle tradizioni del pacifismo e dell’internazionalismo proletario, l’aveva avversata.

Non così i partiti fratelli nel resto d’Europa: per non parlare dei laburisti inglesi, sostanzialmente estranei al marxismo, la Spd si era accodata alle decisioni del Kaiser, lasciando che i leader della sinistra pacifista Rosa Luxemburg e Karl Liebknecht fossero gettati in carcere.

In Francia la Sfio, assassinato da un interventista il direttore dell’Humanité Jean Jaurès, grande intellettuale e oppositore del militarismo, cedette alle sirene dei revanscisti d’oltralpe, che non si arrestavano di fronte a nessun ostacolo (arrivarono persino a foraggiare un nuovo giornale guerrafondaio per il transfuga Benito Mussolini).

Accanto a quello italiano a schierarsi contro la guerra ci fu il solo Partito operaio socialdemocratico russo nella sua maggioranza “bolscevica”. Così, mentre entravano in crisi i tradizionali riferimenti tedeschi per le questioni teoriche, francesi per l’organizzazione sindacale, nei convegni tenuti nella neutrale Svizzera emergevano strette affinità fra le posizioni del nuovo direttore dell’Avanti! Giacinto Menotti Serrati e quelle di Lenin e compagni.

Questi, alla fine del 1917, riuscivano addirittura a ribaltare in rivoluzione la guerra voluta dall’autocrazia zarista, dai vertici militari e dalla nascente borghesia dell’industria pesante. Ma era ancora al governo Kerenskij, quando nell’agosto dello stesso anno, durante i drammatici moti contro la fame, a Torino risuonò il grido: «Fare come la Russia».

Il mito sovietico nasceva fra le masse operaie prima ancora che fra i militanti politicizzati. Mentre l’ala riformista del Psi (Turati, Treves, Modigliani) guardava con diffidenza alla rivoluzione o per idiosincrasia all’uso della forza o perché legata a una visione meccanicistica del marxismo (era inconcepibile una conquista del potere da parte del proletariato in un paese arretrato come la Russia, in cui non si era ancora affermata pienamente la società capitalistica), un autentico entusiasmo si impadroniva del nucleo centrale del partito, i massimalisti alla Serrati, e soprattutto dei giovani aderenti alla Fgs.

Fra questi i torinesi dell’Ordine Nuovo (Gramsci, Togliatti, Tasca e Terracini), che puntavano all’educazione delle masse e alla costituzione dei consigli di fabbrica, e il gruppo che a Napoli si raccoglieva attorno all’ingegnere (di origini piemontesi) Amadeo Bordiga.

Cessate le ostilità e ripristinata, non senza ritardi, la libertà di movimento e di riunione, il movimento socialista proprio grazie alla sua coerenza pacifista conobbe una crescita impetuosa. Dai 58 mila iscritti del 1914 si passò a 87 mila nel 1919, per toccare sul finire del 1920 la cifra di 216 mila. Un incremento di analoga misura ebbero l'organizzazione giovanile e il movimento sindacale. I 53 deputati del 1914 divennero 151 nel 1919.

Oltre un quarto dei comuni italiani e un terzo delle amministrazioni provinciali caddero l’anno dopo nelle mani della sinistra (in provincia di Cuneo, Bra, Borgo San Dalmazzo, Ceva, Paesana, Costigliole Saluzzo, Villanovetta, Frassino...). Il paese era attraversato da accesi conflitti sociali: la lotta per le 8 ore, l’occupazione dei latifondi da parte dei braccianti, la solidarietà con la Russia, lo sciopero delle “lancette”, l’occupazione delle fabbriche da parte dei metalmeccanici (nel triangolo industriale, alle Officine di Savigliano).

Mentre la Confederazione generale del lavoro, diretta dai riformisti, puntava ad arrivare comunque a un accordo con il padronato, il partito non riusciva a individuare uno sbocco politico alle lotte, lacerato fra prospettive divergenti. I riformisti miravano all’intesa con i partiti “borghesi” e al varo di una fase “costituente”, i massimalisti inneggiavano alla rivoluzione, ma non facevano nessun passo verso la sua attuazione e finivano per provocare soltanto conservatori e ceti medi.

La sinistra e i giovani chiedevano un partito nuovo, organizzato in modo da poter affrontare la conquista del potere. Erano in questo aiutati dalle direttive dalla III Internazionale che i bolscevichi avevano fondato a Mosca in alternativa alla II Internazionale socialista. Per aderirvi occorreva soddisfare 21 clausole. Serrati e i massimalisti erano pronti ad accettarle tutte, tranne due: il cambio del nome (erano tuttalpiù disposti ad aggiungere il termine comunista a quello socialista) e a espellere i riformisti. Per loro Turati non era semplicemente “magni nominis umbra” o un ostacolo al processo rivoluzionario, ma pur sempre un padre nobile del socialismo italiano.

Anche tra i comunisti c’era chi, come Terracini, sperava che i riformisti se ne andassero spontaneamente, quasi concordando una spartizione di compiti fra rivoluzionari e gestori di un elettorato più “moderato”. Così non fu e dai congressi di sezione e di federazione, iniziati nel dicembre del 1920, uscirono i delegati che a Livorno assegnarono 98.028 voti ai massimalisti, 58.783 ai comunisti e 14.695 ai riformisti.

I comunisti non erano riusciti né a conquistare la maggioranza né a ottenere l’espulsione dei seguaci di Turati. E così scelsero la strada di un nuovo partito.

Cuneo fu una federazione, in cui ottennero una delle percentuali più alte: 1.356 voti (il 58%) contro i 958 dei massimalisti. Il risultato era maturato soprattutto nelle sezioni dell’albese e di Fossano, mentre gli “unitari” avevano prevalso nettamente a Mondovì, Bra e di misura in Cuneo città (33 a 26).

A Saluzzo vinsero i comunisti. Liderico Vineis scriveva per l’ultima volta sul giornale che aveva fondato nel 1914 ancora come organo radicale: «La Sezione socialista di Saluzzo ha creduto opportuno lasciare che si compia l’esperimento di un’azione comunista e perciò non si oppone alla assunzione della “Riscossa” da parte dei comunisti. Da questo numero cessa pertanto qualsiasi collaborazione mia e degli altri redattori della Sezione socialista».

Era il 7 febbraio 1921: sezioni del Pcd’I si erano costituite a Barge fra gli scalpellini e a Villanovetta fra i cartai della Burgo. Costigliole, Piasco, Venasca e Paesana rimanevano legate a Vineis. L’on. Paolo Lombardo aveva voluto restare al di sopra dello scontro fratricida. Sarebbe risultato fra gli astenuti, se avesse partecipato al congresso di Livorno. Era invece rimasto a Saluzzo a difendere in tribunale quattro operai di Savigliano accusati di sequestro di persona e minacce gravi per quanto accaduto con l’occupazione della Snos nel settembre 1920.

Di saluzzese al teatro Goldoni e poi al San Marco ci fu sicuramente Giuseppe Culasso: rappresentava però la sezione di Bastia, comune in cui era capostazione.

Il perno dell’organizzazione comunista stava nella Camera del lavoro (non esisteva ovviamente alcuna incompatibilità sindacale), diretta fino all’ottobre del 1920 dall’impiegato Mario Mortara. Quindi, divenuto questo consigliere comunale, dal meccanico dell’officina del tramway Michele Lombardi.

L’anno dopo il sindaco Gregorio Pivano caccerà la Cgdl dai locali comunali concessi dal suo predecessore Craveri a condizioni favorevoli, i fascisti bruceranno la tipografia in cui si stampava la “Riscossa”. Mortara, bastonato dagli squadristi e licenziato dallo Stato (l’altro consigliere comunista Giuseppe Ingaramo era stato mandato via dalla tipografia in cui lavorava), si vedeva costretto a ridimensionare la sua attività politica. Lombardi espatriava.

Il nuovo partito era nato per “fare la rivoluzione”. Ma la stagione delle grandi lotte e della mobilitazione popolare era tramontata. Dal “biennio rosso” (1919-20) si era passati a quello “nero” (1921-22) con le squadracce fasciste padrone del campo. I comunisti dovettero ben presto ricalibrare i loro obiettivi. Ma ci vollero più di vent’anni di cospirazione clandestina e venti mesi di lotta armata, perché quel piccolo partito, radicalmente trasformato negli scopi e nell’organizzazione, divenisse la seconda forza politica del paese e, in alcuni settori della società, addirittura la più rappresentativa.

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