Da Moretta alla Normandia: così una testimone racconta lo sbarco la storia Tradotto da un cugino, esce il diario della giovane Simonne, che poi sposò un Bottano
Quando lasciò Moretta, alla ricerca di fortuna nel nord della Francia, la famiglia Bottano mai si sarebbe aspettata che quel piccolo villaggio sulle rive dell’Atlantico diventasse un giorno il centro della storia mondiale. Sono trascorsi 77 anni da quel 6 giugno 1944 in cui gli Alleati sbarcarono in Normandia, cambiando le sorti della Seconda guerra mondiale.
Alcuni anni fa, Simonne, moglie di Pascal Bottano, ha raccolto in un diario i suoi ricordi di quelle ore quando, allora quindicenne, vide arrivare gli inglesi e gli americani. Simonne Bottano è mancata nel 2014, ma la sua testimonianza è arrivata fino a Moretta, dove il cugino Giovanni Bottano l’ha conservata e tradotta. Ecco il suo racconto.
Avevo 15 anni, abitavo ad Asnelles con i miei genitori e i miei nonni. La notte tra il 5 e il 6 giugno 1944, eravamo in allarme perché numerose onde di bombardieri inglesi e americani ci sorvolavano senza sosta. Ciò ci faceva pensare che qualche cosa stesse per succedere. Verso le 5 del mattino, mio padre si mise alla finestra della mia camera, dalla quale si vedeva il mare in direzione di Meuvaines. Stupore: il mare era pieno di enormi imbarcazioni . Mio padre andò a cercare il suo cannocchiale e ci disse: «E’ lo sbarco».
Inutile descrivervi la nostra gioia ma anche la nostra angoscia, perché da quelle imbarcazioni erano puntati obici verso la costa, dunque verso di noi. Noi abitavamo relativamente vicino al mare e verso le 7, mio padre decise che dovevamo andare un po’ più lontani, nel villaggio, a piedi e con qualche cosa in un piccolo portabagagli. Più nessuno aveva delle biciclette, erano state requisite dai tedeschi nel 1940.
Mia madre ed io siamo andate a vedere i miei nonni, che si erano rifugiati sotto una scala nella loro casa. Erano molto spaventati a causa dei colpi di mortaio della marina. [...] Cosi partimmo tutti insieme. Passando davanti ad una casa, abitata da tedeschi, c’era un grande trambusto. Un soldato vedendoci e rivolgendosi a mia madre disse: «Oh signora, che grande disgrazia».
Arrivati all’altezza della sala delle feste, e passando davanti a una casa di conoscenti, ci dissero: «Dove andate?». Noi rispondemmo che non lo sapevamo, che avevamo paura nella nostra casa e che cercavamo un riparo. «Venite nella nostra», ci dissero ,e noi abbiamo accettato senza esitare. Dentro questo nascondiglio c’era già una famiglia, i nostri vicini e anche un’altra persona. Eravamo seduti a terra. Le bombe piovevano. Un colpo ferì il proprietario che era vicino all’entrata. La ferita non era molto grave.
[...] Per tutto questo tempo non cessavano di cadere le bombe e una signora ci benediceva con l’acqua di Lourdes e ci faceva recitare l’Ave Maria e il Padre Nostro assieme ad una frase, che e incisa nella mia memoria: “Fate che non ci bombardino più!”. Il tempo passava, non sapevamo niente di ciò che succedeva fuori e ogni tanto ci giungevano delle voci, ordini in tedesco. Verso le 10, durante un momento di calma, abbiamo fatto qualche passo nel cortile e guardando in direzione di una collina, abbiamo visto un carro armato che risaliva la scarpata e si dirigeva verso i campi.
Mio padre disse: «Non è un carro tedesco, è sicuramente inglese». Noi eravamo pazzi di gioia e in un istante ritornammo verso l’ingresso del cortile. Vedemmo arrivare dei soldati vestiti in color kaki, il casco piatto sormontato di foglie e il viso annerito: inglesi… vennero verso di noi, noi eravamo spaventati ma cosi felici! Intanto i tiri degli obici erano quasi cessati e si sentivano in lontananza, ormai. I soldati ci domandarono se sapevamo dove si trovassero dei tedeschi e noi gli abbiamo fatto vedere pressappoco ciò che potevamo. Gli inglesi regalarono delle caramelle e persino un’arancia ai bambini.
[...] Verso le 18, credo, praticamente lo sbarco era terminato e pressoché tutto era calmo. Così mio padre, con un altro signore, decise di andare alla spiaggia per vedere. Mi unii a loro.
Lo spettacolo era allucinante. Un’ incredibile armata di grosse imbarcazioni lontane e, più vicino alla riva, imbarcazioni più piccole: i famosi mezzi da sbarco con il fondo piatto, da dove uscivano uomini, materiali, camion e jeep. [...]
Ad un tratto, ufficiali inglesi della marina, avvicinandosi a noi, ci dissero di non andare più avanti, perché ci trovavamo vicino ai blocchi della diga.
Allora mio padre rispose: «Volevo che mia figlia vedesse tutto ciò per ricordarsene per sempre».
[...] Da quel 6 giugno 1944 sono sempre stata riconoscente a tutti quei giovani soldati, a coloro che hanno combattuto e dato la vita, a coloro che hanno combattuto, perché si potesse di nuovo tornare a vivere e a respirare liberamente.