Berardo ricorda il dottor foco: era il medico di fiducia dei verzuolesi, con la passione della buona politica
Arrivava dall’alessandrino il dottor Giuseppe Foco. A Verzuolo aveva ottenuto il posto di medico condotto. La mia famiglia fu tra le moltissime che lo scelsero come proprio dottore.
Quando mi recavo da lui per qualche malanno di stagione (lo studio era in un palazzone di via Siccardi, non so più a che piano, un autentico test cardiorespiratorio, se si facevano le scale), nella affollatissima sala di aspetto si levava un brusio: “Fai presto, non mettetevi a parlare di politica”.
Era infatti successo che nel 1975 la Dc verzuolese, alla quale non mancavano le teste pensanti (Pierluigi Pomero e non solo), subodorando un calo di voti dopo la batosta del referendum sul divorzio, aveva preso le contromisure, da un lato convincendo gli esponenti della ex lista liberal-indipendente di Michelangelo Rivoira a confluire sotto lo scudo crociato, dall’altro candidando un medico stimato come Giuseppe Foco.
Con 277 preferenze fu il terzo eletto dietro Pomero e l’emergente Pietro Rosso in una lista che ottenne 10 seggi su 20. Il Psi confermò i suoi sei, la lista Pci-Pdup ne ebbe solo tre. Fu una delusione, anche se chi scrive con 237 preferenze contro 218 si levò la soddisfazione di sorpassare il “personaggio” della sinistra verzuolese, il socialista Marcello Garino.
Foco sarebbe dovuto diventare assessore, ma non accettò: non voleva sottrarre troppo tempo alla sua professione. Lo fecero capogruppo.
Quando, lasciata la sala d’attesa e varcata la porta dello studio, ero magari sul lettino e mi stava appoggiando lo stetoscopio sul petto, mi domandava: «Ma che cosa deve fare esattamente un capogruppo?». Io ero molto più giovane di lui, un insegnante alle prime armi, ma di esperienza da capogruppo ne avevo da vendere, visto che lo facevo fin dal 1970 in comune, poi anche in Comunità montana e quindi nel Comitato comprensoriale Saluzzo-Savigliano-Fossano. «Guarda che un conto è il capogruppo di minoranza, un altro quello di maggioranza, anzi del principale partito di maggioranza (era il tempo delle giunte Dc-Psi). Dovresti all’incirca dire il contrario di quel che dico io». «Certamente - rispondeva - quando fai dei discorsi che non condivido, ma quando dici delle cose giuste come sul piano di edilizia popolare o sul metano, che faccio? Mi associo e mi complimento? Quelli di Falicetto mi defenestrano alla prima riunione del gruppo».
Gli suggerivo allora di aspettare che parlasse prima a nome del Psi Marcello Garino, il quale sapeva benissimo come raccogliere le proposte più incisive della minoranza, senza dargliene troppo merito, anzi assorbendole nel programma di giunta. Non era fatto per la politica Giuseppe Foco. Doveva avere tutto il tempo da dedicare ai pazienti. Nel 1980 non si ricandidò, io fui rieletto (ritornati sotto il simbolo del Pci, ottenemmo finalmente il quarto consigliere), ma subito mi dimisi: ero entrato in Consiglio provinciale ed ero andato a vivere a Bra.
Qui ovviamente scelsi un nuovo medico: a Bra c’era abbondanza di dottori iscritti al Pci o al Pdup. Nessuno però con la disponibilità e l’umanità cordiale di Foco.
Lo rividi pensionato quando tornai a vivere nel saluzzese, durante delle passeggiate fra Manta e Verzuolo. Veniva a volte a piedi fino a Manta, dove aveva comprato o ereditato per parte della moglie un pezzetto di terra da coltivare: «Anche i medici devono camminare e pensare alla salute, a cominciare da quella del cuore».
Il ricordo mi ha fatto venire in mente una frase di Marco Aurelio: “Anche Ippocrate, che aveva guarito un gran numero di malati, si ammalò a sua volta e morì”). Addio, dutùr!
Livio Berardo