Pagina di storia Sono passati tre quarti di secolo dal 6 marzo 1945: al santuario vennero uccisi 9 partigiani della 181ª brigata garibaldina Nell’eccidio di Valmala, 75 anni fa, il primo a cadere fu il sardo “Ulisse”
Ulisse era il nome di battaglia di Francesco Salis, nato nel 1921 a Jerzu in Sardegna e operaio tessile di filanda al Nord. Era un leader silenzioso, lo chiamavano “il cerca-casa” o “l'albergatore” della 181ª Brigata garibaldina "Morbiducci".
Ulisse conosceva le valli piemontesi come le campagne della sua Ogliastra, «sistemava i compagni nelle famiglie per sottrarli alle vendette fasciste e naziste», ha detto di lui Angelo Boero "Edelweiss", il giovanissimo partigiano verzuolese miracolosamente scampato all’eccidio di Valmala e mancato nel 2018.
Ricordava Boero: «Salis si era rifugiato con i compagni dentro la chiesa, era appoggiato a una colonna. I militari repubblichini guidati dal tenente Adriano Adami, Pavan, lo hanno fulminato con una raffica al volto. Aveva 24 anni, abitava nel mio paese. Parlava sempre dei suoi cari lontani in Sardegna».
Al partigiano sardo, lo scorso 25 aprile, il suo paese di Jerzu ha dedicato una via. La sua figura - forse meno nota degli altri otto: Ernesto Casavecchia, Giorgio Minerbi, Andrea Ponzi, Tommaso Racca, Pierino Panero, Alessandro Rozzi, il russo Ivan Volhov Pavlovich, Biagio Trucco - merita di essere raccontata, attingendo alle ricerche dello scrittore Giacomo Mameli.
Francesco Salis - primo di nove fratelli, figli di Antonio classe 1880 e di Rosa Serra classe 1891 - era partito come soldato di leva nel 1941. A Jerzu - dove dopo la quinta elementare si era formato alla scuola di sartoria Luisiccu Carta - aveva lasciato genitori, fratelli e sorelle. Prima destinazione Firenze dove diventa radiotelegrafista. Poi il trasferimento a Santa Maria Capua Vetere.
Allo scoppio della guerra, nello sbandamento generale, si ritrova in Piemonte, a Verzuolo. Lui, con la passione per il cucito, trova lavoro nella fabbrica di un industriale, Cecco Ponte, titolare di alcune filande. Da Jerzu il fratello Egidio, 86 anni, rammenta: «Quel lavoro gli piaceva, si occupava sempre di sartoria e confezionamento, poi lavorava in mezzo a tante ragazze simpatiche e antifasciste. Era benvoluto dai titolari».
Dopo l'armistizio, come tanti altri, Salis capisce qual è stata la tragedia del nazifascismo. Ed eccolo salire in montagna. Era necessario organizzarsi perché «il movimento partigiano era ancora sulla difensiva, con piccoli gruppi isolati, impotenti».
A marzo - scrive Piero Balbo nel suo libro “Combattere in Valle Varaita - il gruppo di Salis è più compatto e viene inserito nel distaccamento "Bottazzi", uno dei più determinati. L’inverno ‘44-‘45 è stato durissimo, ma i partigiani non demordono. Fino alla terribile giornata del 6 marzo, quella dell’imboscata. Rievoca Balbo: «Erano tutti giovani, fra i 22 e i 27 anni: Ernesto il comandante, Giorgio studente e poi Abete contadino, Cirillo, Dado, Edelweiss, Ercole, Gabri, Gigione, Ivan, Pierre, Pistola, Sander, Tigre, Ulisse. La zona del santuario è ancora coperta di neve. Gradi 15 sotto zero».
I garibaldini di Ernesto si rendono conto di essere accerchiati e tentano di fuggire verso il colle che dà sulla valle Maira. L’attacco a sorpresa non dà scampo. Il primo a morire, fulminato al volto da una raffica, è proprio il sardo Ulisse-Salis».
Subito dopo viene colpito al petto, Giorgio, lo studente. A un centinaio di metri la carneficina. Nove morti. Tigre - Chiaffredo Rinaudo di Sampeyre - ricorda: «Appena usciti dal santuario, un tremendo fuoco incrociato si rovesciò su di noi. I fascisti sparavano a colpo sicuro».
La neve è rossa di sangue. Si salvano in tre, fra questi Boero, l'amico del sarto di Jerzu.