Come ci cambia il virus: l’uno e le scelte collettive INTERVISTA Mario Cardano, prof di Sociologia della Salute, spiega il contesto di emergenza che tutti stiamo vivendo
Un nuovo modo di intendere la socialità e la salute: il Coronavirus ha già cambiato le nostre vite e sicuramente altri cambiamenti ci attendono.
Università e scuole si sono organizzate per digitalizzare la formazione, anche attraverso il registro elettronico che sta dando buoni risultati quanto mai prima, alcuni datori di lavoro favoriscono il telelavoro per non interrompere le attività nel rispetto dei limiti degli spostamenti, gli intrattenimenti domestici sono, per forza di cose, da riscoprire per sopperire alla mancata offerta di svaghi sociali come luoghi di ritrovo, di cultura e di sport.
Qual è la nostra dose di resilienza, e cosa ci porteremo dietro di tutta questa esperienza, una volta passato il peggio e quando sarà ripristinata la normalità? Lo abbiamo chiesto a chi studia la società di mestiere e ne interpreta gli atteggiamenti: il professor Mario Cardano è docente di Sociologia della Salute all’Università di Torino e ha risposto alle nostre domande.
Contatti fisici vietati, coprifuoco alle 18, a casa tra tv e social network. Abbiamo avuto precedenti storici simili?
«Di questa entità no. Ci sono state situazioni precedenti di pandemia che hanno introdotto alcuni cambiamenti degli stili di vita, ma non di questa portata. Ora assistiamo anche ad una mediazione del digitale».
Nonostante i divieti imposti, sono scattate le prime denunce e licenze sospese per chi non ha rispettato i limiti indicati. Perché, a differenza della Cina, in Italia c’è questa forte resistenza a rispettare gli obblighi?
«Sono personalmente soddisfatto della decisione presa di considerare la penisola intera a rischio: la Cina, essendo una dittatura, ha imposto sistemi di sorveglianza più severi, mentre nel caso italiano c’è una tendenza ad aggirare le regole in una condizione di innocenza morale, pensando di non essere degli approfittatori, ma solo persone furbe che si inseriscono nelle pieghe di un sistema imperfetto. Per questo, non mi stupirebbe sapere di autocertificazioni false. L’aspetto tuttavia più interessante da cogliere è cosa possiamo imparare e apprendere dall’emergenza. Quello che emerge al momento, è lo scarso senso civico di una parte consistente della popolazione italiana che ha maturato nel tempo un atteggiamento di ostilità verso lo Stato, l’amministrazione pubblica e dei saperi esperti: c’è poca volontà di tenere conto delle indicazioni delle autorità politiche e sanitarie, in una prospettiva che dovrebbe invece essere di interesse comune. Questa tradizione di tendere alla presunta furbizia è una delle caratteristiche più tristi della cultura italiana. A questo si lega un altro aspetto: le singole scelte individuali hanno implicazioni collettive molto rilevanti. Se è vero che la libertà personale termina dove diventa vincolante per gli altri, bisogna anche pensare alle persone immunodepresse: in materia di salute non si possono ignorare i problemi che riguardano una comunità intera. Avevamo avuto un’anticipazione di questo fenomeno nel movimento no-vax: si accetta liberamente il rischio di contrarre patologie dimenticando che c’è un problema di copertura sociale, soprattutto per alcune fasce deboli della popolazione. La specificità della situazione da Coronavirus dimostra che i comportamenti individuali aggregati, ad esempio l’esodo nord-sud, possono avere implicazioni rilevanti per tutti».
Qualcuno, nel frattempo, se l’è anche presa con i giornalisti. Ma la corretta informazione non è alla base anche di una buona salute?
«L’informazione è un elemento importante perché le persone adottino comportamenti appropriati. Il problema si pone con i meccanismi dell’informazione che vogliono la sensazionalità della notizia e titoli che colpiscano l’attenzione, tenendo conto che il titolista spesso non è l’autore dell’articolo. La stampa ha una grande responsabilità e può avere effetti disastrosi su tematiche delicate. L’accuratezza della notizia e il controllo delle fonti devono essere i cardini, poi è necessario avere il tempo adeguato per accertare la qualità dell’informazione, scegliere una linea di sobrietà da comunicare e riflettere sulle implicazioni che un articolo può avere sulla popolazione. Se sono fortemente negativi in termini di salute pubblica, si deve rimodulare il messaggio, o spiegare bene alcuni aspetti controversi. A mio giudizio sono regole da rispettare in generale, ma in caso di emergenza ancora di più».
L’ospedale e i Pronto soccorso saranno d’ora in poi interpretati come un concetto culturale di vera emergenza, e non surrogati del medico di base?
«L’accesso al Pronto soccorso come via breve per avere una risposta ad una situazione non emergenziale è ricorrente, ma il sistema di triage risolve in parte questo problema, così come il ticket l’uso limita l’uso improprio. Il nostro sistema sanitario si sta mostrando tra i migliori d’Europa, rispondendo in modo efficace con una generosa disponibilità e competenza del personale».
Cosa ci porteremo dietro da tutta questa esperienza?
«Impareremo ad apprezzare meglio il nostro sistema sanitario e avremo la consapevolezza che la libera azione e determinazione di ciascuno deve essere collocata in un contesto di scelte collettive. Una minoranza che decide in modo errato contro i divieti imposti può produrre danni molto severi sulla popolazione nel suo insieme».