Don Marco: anche noi preti frastornati La messa via web? Va vissuta e cantata
Quest'anno la Settimana Santa e la Pasqua, eventi che sono il cuore e l’essenza della cristianità, saranno vissute, per la prima volta dopo secoli, in maniera non comunitaria, senza la partecipazione dei fedeli.
Un fatto che non ha precedenti, nemmeno ai tempi delle grandi epidemie che la storia ricorda.
Abbiamo chiesto al saluzzese don Marco Gallo, uno dei parroci responsabili delle parrocchie di Verzuolo e di Costigliole, cosa pensa di questo momento, surreale e drammatico al tempo stesso, che stiamo vivendo.
Che sensazione suscita in lei, uomo di Chiesa, questa situazione?
«Come tutti, sono frastornato. Mi sembra che non sia ancora possibile immaginare le conseguenze di ciò che stiamo vivendo, in cui siamo piombati all’improvviso, senza ovviamente poter esser preparati. Dalla libertà di movimento siamo passati al tutti fermi, e preoccupati. Mi sembra però che la metafora utilizzata da tanti («siamo in guerra») sia pericolosa. Se siamo in guerra, chi è il nemico? Il virus o forse persino chi ci fa ammalare? E, soprattutto, in guerra, tutto o quasi è permesso. Il Papa ci ha donato invece la metafora più ampia e bella: siamo tutti su una stessa barca. E non solo noi uomini, ma tutta la terra, anche la natura ed il virus. La vita non è esser forti, ma è essere insieme e in relazione. Sulla stessa barca c’è il Signore, viviamo o affondiamo tutti insieme, noi e gli altri, noi e la terra, la natura».
Come dovrebbe vivere la comunità cristiana e, nello specifico, la Chiesa locale questa strana Pasqua 2020?
«Ci sembra che il compito delle comunità dei credenti, in questo delicato periodo, sia quello di diffondere un linguaggio moderato, benevolo. Se le cose sono difficili ora, e saranno dure più avanti per tanti motivi, è indispensabile vivere fraternamente. Dobbiamo assumere e offrire un modo di relazionarsi più moderato, perché nessuno si salverà da solo. La Pasqua è il momento in cui viviamo con il Signore la sfida con il dolore e la paura. Qui ritroviamo forza, anche noi come preti. I momenti più struggenti di queste settimane, per noi, sono stati i funerali a porte chiuse che abbiamo celebrato. In quei momenti, senti quanto sia vitale la comunità, l’abbraccio, la vicinanza, lo stesso rito. Sul fronte sociale, la nostra Caritas è vicina a chi è più in difficoltà nei vari paesi e ci prepariamo ad esserlo ancora di più, quando emergeranno nuove povertà».
Come sacerdoti, state sperimentando la messa e altre attività pastorali ricorrendo alle tecnologie digitali. Quali sono gli aspetti positivi e quali quelli negativi di questa nuova modalità?
«Riflettiamo molto su cosa è necessario fare. Da quattro settimane, abbiamo pensato di proporre principalmente due attività: ogni mattina, dopo aver pregato sulla Parola di Dio insieme, prepariamo un vocale che diffondiamo attraverso i gruppi legati alle nostre parrocchie. Ci sembra la cosa più feconda, fermarsi sulla Parola e partire da essa per cercare la forza. Nei giorni festivi, poi, celebriamo in diretta streaming. Siamo stati molto indecisi su questa decisione, ma poi ci siamo buttati. La perplessità viene dal fatto che la liturgia attraverso il digitale (e il televisivo) è molto povera, manca la parrocchia, la partecipazione vissuta e condivisa».
E allora, che fare?La liturgia non si guarda, non si assiste a essa, ma in essa si entra, si vive. Per questo è utile, nella dimensione del virtuale, almeno sospendere le attività, fare alcuni gesti con il corpo (alzarsi, sedersi, cantare, rispondere), accendere una candela. Alla fine proponiamo di condividere una fetta di pane insieme, che non è la comunione, ma che è segno e nostalgia di essa, come un dolce anticipo del Pane eucaristico». Lei, da prete, come sta vivendo questo periodo di forzato “isolamento sociale”?
«Io lo vivo insieme a don Luca e don Claudio, come fraternità. In realtà, facciamo una vita quasi da monaci: ci alziamo presto per pregare insieme, scandiamo la giornata proprio con la liturgia delle Ore, fatta di salmi cantati e ascolto della Parola di Dio. Poi studiamo, cuciniamo, lavoriamo nell’orto e nel giardino e cerchiamo di esser vicini ai parrocchiani con telefonate o contatti permessi. Devo dire che ci piace pensare a questo tempo difficile non come a un tempo perso, ma come un tempo ritrovato, abitato dal Signore. In effetti, se non vivessi in fraternità, penso che avrei sofferto molto di più la lontananza delle nostre comunità».