Ceretto, 5 gennaio 1944 Perché ho rifatto il libro
A metà dicembre del 1943, per stroncare la crescente formazione di bande di resistenti nelle valli cuneesi, il Comando tedesco 1020 programmava “dieci azioni di guerra”. Le realizzava fra il 29 di quel mese (Frabosa Sottana) e il 12-13 gennaio 1944 (Valgrana), quindi ne valutava positivamente il risultato: 242 "nemici" uccisi, 300 case bruciate o distrutte. Si trattava di dieci eccidi (contando una volta sola i raid compiuti dalla medesima formazione nello stesso ciclo di rastrellamenti in più comuni confinanti).
Uno dei più efferati, perché non rispondeva alla presenza di basi partigiane, tutt’al più a quella di un gruppo di sbandati, non riconosciuto da alcun Comitato di liberazione, fu quello di Ceretto, in cui vennero trucidati nelle loro case o al lavoro nei campi 27 civili. Era il 10% degli abitanti della frazione posta a cavallo fra Busca e Costigliole, il 20% della popolazione maschile in età lavorativa, un colpo esiziale per una comunità contadina che ha impiegato anni per uscire dal dolore delle perdite umane e dalla miseria provocata dal rogo delle abitazioni, degli attrezzi.
NEL TRENTENNALE
Nel 1974, in occasione del trentennale, pubblicavo con il sostegno delle due amministrazioni comunali una ricostruzione della strage. A parte la mia limitata conoscenza del periodo resistenziale in provincia (a quella data da giovane filologo classico avevo edito solo saggi di storia greco-romana) non potevo contare su molti documenti a cui attingere. Fu così che la cronaca dell’eccidio crebbe sulla base delle testimonianze dei sopravvissuti, raccolte casa per casa con l’aiuto del partigiano Giovanni Sola, da sempre residente al Ceretto.
Quel volumetto raccontava lo svolgimento dei fatti, ne illustrava le cause prossime (la pianificazione della Militärkommandantur), ma non quelle occasionali (perché Ceretto e non un altro comune della bassa valle Varaita), non identificava correttamente gli esecutori del raid, tedeschi e italiani, e non descriveva il dopo eccidio: non solo la catastrofe sociale, ma anche una ricerca di giustizia frustrata da un precoce desiderio di dimenticare da parte di molti settori delle istituzioni. Del resto la parola amnistia non contiene forse la radice del verbo “ricordare” in greco, negata dal prefisso dell’alfa privativo? E’ insomma un sinonimo di amnesia.
Muovendomi in senso opposto sono andato a frugare negli archivi comunali della zona con le loro poche notizie rimaste (la relazione del commissario prefettizio di Costigliole posteriore di qualche giorno al 5 gennaio è irreperibile), ho consultato i documenti del Bundesarchiv di Friburgo e le foto (Bilder) di Coblenza, gli Atti del processo contro Corrado Falletti e altri (Corte d’assise straordinaria di Genova). L’incrocio delle informazioni fornite dalle varie fonti, con alcuni passaggi delle testimonianze orali, consente oggi di individuare le unità tedesche che condussero l’azione, come pure i corpi o squadre di fascisti della Repubblica sociale che vi diedero un rilevante contributo.
Diviene anche possibile comprendere meglio gli antefatti e le vicende amare del dopoguerra.
Era un qualcosa che andava compiuto per la serietà del lavoro storico, che richiede una continua revisione (non revisionismo!) critica e anche un supplemento di verità dovuto alle vittime, alle vedove, agli orfani, alle comunità di Busca e Costigliole.
LA NUOVA RICERCA
Domenica 10 gennaio sono stato chiamato nella parrocchiale di S. Maria Maddalena, dove si teneva l’annuale commemorazione dell’eccidio, ad illustrare l’uscita della nuova edizione della ricerca: ho chiesto venia se da non credente conclamato non trovavo di meglio che ricorrere alle parole di papa Francesco. In effetti certi passaggi del VII capitolo dell’enciclica “Fratres omnes” sono più illuminanti di tante elaborazioni politico-storiografiche. Parlando degli orrori del Novecento, papa Bergoglio scrive: «Da chi ha sofferto molto in modo ingiusto e crudele, non si deve esigere una specie di “perdono sociale”. La riconciliazione è un fatto personale...».
Poi, dopo aver ricordato la Shoah e i grandi massacri della guerra mondiale, aggiunge in tono accorato: «È facile oggi cadere nella tentazione di voltare pagina dicendo che ormai è passato molto tempo e che bisogna guardare avanti. No, per amor di Dio! Senza memoria non si va mai avanti, non si cresce senza una memoria integra e luminosa. Abbiamo bisogno di mantenere la fiamma della coscienza collettiva, testimoniando alle generazioni successive l’orrore di ciò che accadde, che risveglia e conserva in questo modo la memoria delle vittime, affinché la coscienza umana diventi sempre più forte di fronte ad ogni volontà di dominio e di distruzione».