Da Barge alle valli del Viso, l’epopea del Saluzzese roccaforte garibaldina
Nelle foto del 29 aprile 1945 guida la sfilata partigiana per il centro di Saluzzo un commissario garibaldino, Ezio Bazzanini, con i comandanti di Giustizia e libertà “Gigi” Ventre e “Amilcare” Macciaraudi. Due giorni prima, mentre a Verzuolo uomini della 181a brigata e GL della “Rolando Besana” difendevano la cartiera dalle colonne tedesche in ritirata, la città veniva liberata dalla brigata “Saluzzo”, dalla matteottina “Liderico Vineis” e qualche distaccamento della 15a Garibaldi. Una parte di questa aveva proseguito in direzione di Torino per raggiungere il comandante Pompeo Colajanni, “Barbato”, che per le sue doti militari era divenuto luogotenente del generale Trabucchi nel Comitato militare del Cln piemontese, e si accingeva a dirigere la liberazione del secondo polo industriale italiano.
Senza voler sottovalutare il ruolo dei GL nel saluzzese, che hanno dato alla memorialistica e al giornalismo penne quali Giorgio Bocca e Mario Giovana nonché un sindaco di peso, Lorenzo Burzio, o della 13ª Matteotti, operativa solo dal 23 gennaio 1945, per non parlare della 181ª Garibaldi attiva in valle Varaita, il cui prezzo in vittime è stato incomparabilmente il più alto (131 fra caduti e dispersi), per questa Festa della liberazione senza commemorazioni e senza fiaccolate vorrei soffermarmi su alcuni caratteri della 15ª.
IL PESO MILITARE E POLITICO
Barbato aveva portato con sé parecchi ufficiali e soldati del Nizza cavalleria di stanza a Cavour, uomini in grado di andare a rinsaldare formazioni in difficoltà, come in valle Varaita, o costruire una organizzazione ex novo, come nelle Langhe. “Milan” (Isacco Nahoum) inventò per tutti la “pianurizzazione”, vale a dire la tattica di fronte ai rastrellamenti tedeschi di non ritirarsi verso le alture inospitali e scoperte, bensì disperdersi alle spalle del nemico per sopravvivere e contrattaccare.
Ancora più rilevante il ruolo politico. Dalla resistenza in valle Po sono usciti tre deputati: Antonio Giolitti, Colajanni e Nahoum. Colajanni è stato sottosegretario nei governi di unità nazionale, Giolitti ministro nei governi Moro-Nenni e commissario europeo. Alla competenza giuridica e strategica di Barbato aggiungiamo quella economico-politica di Giolitti e la cultura di Ludovico Geymonat, che nel dopoguerra avrebbe introdotto in Italia la filosofia della scienza, fino a allora prerogativa delle accademie anglosassoni. Ma anche i quadri operai erano di tutto rispetto: il commissario Gustavo Comollo aveva frequentato la scuola leninista di Mosca e aveva conosciuto “l’università della galera” (al confino lesse, studiò e incontrò la sua futura compagna, Odinea Marinze).
GLI INIZI
Le storie generali della Resistenza, da quella di Roberto Battaglia del 1955 all’ultima di Franzinelli e Flores, aprono giustamente con la formazione delle bande nel cuneese, provincia partigiana per eccellenza, citando l’“Italia libera” di Duccio Galimberti e Dante L. Bianco o la formazione di Ignazio Vian. In sequenza cronologica Duccio sale con i suoi compagni a Madonna del Colletto il 12 settembre, Vian occupa la valle Colla il giorno dopo.
Ma già il 10 settembre da Torino Geymonat, Comollo, Nella Marcellina e altri quadri del Pci, usciti dalla clandestinità, dal carcere o dal confino, sono arrivati a Barge, dove il professore ha una casa di campagna: la sera sono raggiunti dal tenente Colajanni, che porta con sé armi e armati.
LA FRATERNIZZAZIONE
Geymonat conosce bene Barge: un suo affittuario Tommaso Ribotta mette a disposizione un ciabòt nella frazione Capoloira. E’ isolato. Nel raggio di 100 metri ci sono solo la casa e la stalla dello scalpellino Giovanni Perassi.
Caterina, la figlia maggiore allora diciannovenne (oggi veleggia verso i 96 anni), testimonia:
«Mia madre si era recata alla baita di Ribotta per attingere acqua dal pozzo. Vi trovò un gruppo di uomini armati di mitra e di fucili. Si spaventò moltissimo e, credendoli dei tedeschi, ritornò a casa con i secchielli vuoti. Io la tranquillizzai e le consigliai di tornare. Questi ragazzi le andarono incontro, prodigandosi a tirarle l'acqua dal pozzo; seguirono le presentazioni a vicenda. Nel pomeriggio ci chiesero del pane, abbiamo dato loro sette micche; mio padre lavorava sulle cave di Quarzite e da poco ne aveva portata a casa una gerla piena, era pane cotto nel forno di mia nonna, su a Mombracco».
Papà Perassi aveva raccomandato alla moglie Teresa e alle figlie: «Non chiedete niente, non siate curiose, l'unica cosa che possiamo fare è aiutarli».
Precisa Caterina: «In quei tempi, in casa nostra, la roba da mangiare era scarsa e con i partigiani decidemmo che, se chiedevano del cibo alla gente della zona, noi eravamo disposti a cucinarlo. Allora le gerarchie avevano poco valore e non era raro vedere Giolitti e altri capi collaborare con i compagni nel pelare le patate e svolgere i lavori più umili. Pietro e la sua compagna Alda pernottavano sovente da noi. Alla sera Pietro riceveva messaggi dagli Inglesi, su alla baita di Ribotta e poi scendeva a casa nostra, per decifrarli alla luce del lume a petrolio. Un po' di caffelatte e polenta era la sua cena».
Indispensabile nel rapporto con la popolazione la parte del clero: Colajanni e i suoi commissari sanno dialogare con i parroci, da don Lerda di Revello a don Agnese di Barge.
LA PRESENZA FEMMINILE
Sono molte le donne che contano nella Resistenza in valle Po; oltre a Teresa e Caterina Perassi, la contessa Caterina d’Isola e sua sorella Barbara che soccorrono i feriti (Giovanni De Luna ha dedicato molte pagine alla singolare mescolanza che ha accomunato nel castello di Bagnolo aristocratici e comunisti, cattolici e marxisti), l’ostetrica Maria Rovano, a cui il sempre immaginifico Barbato ha assegnato il nome di battaglia “Camilla” (nell’Eneide a”dsueta proelia virgo dura pati”), la quale per assistere le donne incinte o partorienti entra in tutte le case, le mogli di Geymonat e di Guaita, la compagna di Comollo, “Alda”, infaticabile staffetta fra Torino e le valli, finché non viene catturata e deportata a Ravensbrück.
Le donne sono il 5,71% della brigata: la percentuale più alta fra tutte le formazioni partigiane del Piemonte.
L’AUTOFINANZIAMENTO
Per qualche settimana i partigiani sopravvivono con il pane, le castagne e le patate offerte dai contadini, senza poter pagare, poi… un colpo di fortuna.
Il 20 dicembre a Cavour la pattuglia di “Balestrieri” intima l’alt a un’auto sospetta. L’autista non obbedisce, anzi dall’interno partono raffiche di mitra, che uccidono un partigiano. I compagni rispondono al fuoco e bloccano il veicolo. Dentro trovano il corpo di un maggiore tedesco in borghese e gravemente ferito un milite fascista, Pier Paolo Lidonnici, figlio del segretario saluzzese del fascio. Temendo l’arrivo di altri automezzi nemici, i partigiani si ritirano portando via la borsa che l’ufficiale teneva accanto. Pensano che contenga documenti preziosi. Invece scoprono due milioni di lire. L’ufficiale ucciso è Christoph von Andreae, Baurat della Organizzazione Todt: la grande impresa (a inizio estate conterà nei cantieri della provincia 2.652 operai) messa in piedi per costruire campi di atterraggio, strade, ponti, tutte le infrastrutture necessarie alla conduzione della guerra, ha infatti Bauleitung (direzione) e magazzino nell’aeroporto della Grangia. Il denaro, che sarebbe servito per pagare le ditte appaltatrici, torna molto utile ai partigiani, a cui manca tutto. Balestrieri consegna la borsa al comando, che invia subito 531 mila lire alla Delegazione Garibaldi di Torino.
Il resto viene riposto in una cassaforte portatile e affidato alla custodia di Teresa e Caterina Perassi.
Teresa, nonostante la perdita del marito, morto di infarto dopo una irruzione tedesca, ha tenuto la cassetta al sicuro fino alla liberazione. Poi, con praticità contadina, l’ha adibita a ripostiglio per piccoli attrezzi. Alla sua morte la figlia Caterina e la nipote Luisella l’hanno messa a disposizione di chi come Sergio Beccio si stava impegnando a costruire un centro di documentazione sulla lotta di liberazione.
Purtroppo, quando nel 2003 gli Istituti storici della resistenza e la Regione avviarono il progetto Interreg “Memoria delle Alpi: i sentieri della libertà”, la Comunità montana valle Po non vi aderì e la cassaforte ritornò nell’ombra.
Eppure si tratta di un bel pezzo di “archeologia” contemporanea. Smentisce tra l’altro le insinuazioni comparse in una storia di Saluzzo del 2001 sulla sparizione del denaro.
Le scritte sulla parete interna contengono una contabilità essenziale. Vi sono annotati a sinistra i 2 milioni della Todt, da cui è scalata la somma girata a Torino, su altre colonne appaiono con le relative date i prelievi di Pietro (Comollo), Ant. (Antonio Giolitti) e di Alda. E’ lei che ritira la tranche più grande: 700 mila lire. Dunque il denaro fu usato per il sostentamento delle bande. Ed era nelle mani di donne, che certamente correvano rischi inimmaginabili, ma che offrivano ulteriori garanzie di serietà e onestà.