Il maestro Seimandi: anch’io resto a casa E voglio offrire un sorriso con le canzoni
Aurelio Seimandi al tempo del coronavirus ha dismesso il cappello di Ciaferlin e come tutti si è chiuso in casa. Lui è un musico professionista, nel senso pieno di cultore della musica, suonatore, cantore (e tante altre cose: autore, direttore di banda, uomo di spettacolo: basta così). Dal suo romitaggio partecipa al disagio degli artisti cui è stata rubata la scena. «Il nostro alla fine è un lavoro come gli altri - dice Seimandi - e lo spettacolo è pane quotidiano: tiriamo la cinghia».Domanda retorica a ‘sto punto: come va, caro maestro?
«Male, grazie. Anzi: bene, perché la salute è tutto. Ho girato le ultime puntate di “Mi ritorni in mente” a Telecupole oltre un mese fa, quando ancora non si capiva bene il dramma in cui saremmo piombati. In pochi giorni è cambiato il mondo, tutto si è fermato, anche la produzione televisiva e ogni altra attività. Ora sono qui fra quattro mura e mi è successa una cosa strana».
Che cosa?
«Ho meno voglia di suonare, anzi non mi viene proprio da prendere uno strumento. In compenso sto leggendo e scrivendo molto».
Genere?
«Mi sto soffermando sui testi delle canzoni. Le canzoni sono la colonna sonora della nostra vita, anche in questo momento buio, in cui tanta gente soffre e il personale sanitario sta facendo miracoli.».
Anche ricordare una canzone è un modo per allentare la tensione: consentici di offrire un po’ di leggerezza e un sorriso ai nostri lettori.
«Sono partito dall'obbligatoria “Maledetta primavera” di Loretta Goggi. Parole che sembrano scritte oggi: “Voglia di stringersi e poi / vino bianco, fiori e vecchie canzoni / e si rideva di noi / che imbroglio era / maledetta primavera».
E poi?
«Come si dice, non c'è che l'imbarazzo della scelta. Mi sono appuntato l'americana “Cantando con le lacrime agli occhi” e “Una lacrima sul viso” di Bobby Solo. Ma anche “Il cielo in una stanza” di Paoli, ideale per definire la nostra condizione di segregati in casa. E visto il clima delle risse in tv, offre buoni spunti l'antico brano del Festival di Sanremo “La colpa fu”: abbiamo sempre bisogno di scaricare la colpa su qualcuno o qualcosa. Quando invece sarebbe meglio concentrarsi sulla povera condizione umana, e ricordarsi del detto: un bel tacer non fu mai scritto. Al riguardo c'è una canzone che mi ha sempre intrigato».
Fermo lì. Proviamo a indovinare: “La voce del silenzio?”.
«Bravo. Quella è una grande canzone, scritta da Paolo Limiti e musicata dal genovese Elio Isola. Limiti la scrisse ispirato dalla solitudine di sua madre dopo la morte del marito e papà. Senti che parole meravigliose: “Ci sono cose in un silenzio / che non m'aspettavo mai / vorrei una voce / ed improvvisamente / ti accorgi che il silenzio / ha il volto delle cose che hai perduto”. Una canzone resa immortale da Mina».
Ma a cantarla non furono Tony del Monaco e Dionne Warwick al Festival del 1968?
«Giustissimo. Meno giusto che si sia classificata 14ª, ultima delle finaliste. Così va il mondo. Comunque “La voce del silenzio” resta un capolavoro. Dopo il grande rilancio a opera di Mina, l'hanno ripresa gli Aphrodite's Child, Massimo Ranieri, e anche Bocelli».
Ma ora basta canzoni a tinte tristanzuole. Cambiamo registro: avrai appuntato sui tuoi quaderni d’artista qualche nota di speranza, non è vero?
«Come no. Le prime che mi vengono in mente sono “Che sarà”, “E se domani”, “Aprite le finestre è primavera” cantata da Franca Raimondi e vincitrice del Festival di Sanremo 1956. In assoluto la più aperta a un futuro migliore resta a mio giudizio “Vola colomba bianca vola”, potentemente evocativa. Mi piacciono parecchio anche “Vedrai” di Luigi Tenco e “Come prima” di Tony Dallara, soprattutto per il seguito: “Più di prima”....».
Speri che superate le avversità tutto torni “come prima, più di prima”?
«Magari! Ce lo auguriamo tutti. In realtà penso che bisognerà accontentarci di un ritorno alla normalità graduale. Riconquistare la socialità sarà un esercizio complicato. Mi è difficile pensare ad affollati aperitivi, a una spensierata convivialità, a serate danzanti in cui ci si avvinghia. Sai com'è, la paura durerà a lungo... Vedo piuttosto l'orchestra che suona sul palco e la gente distanziata che ascolta. Per il ballo di coppia occorreranno tempi lunghi, anche perché non riesco a immaginarmi lui e lei che volteggiano con la mascherina».
Condannati alla prudenza per sempre?
«Non dico questo. Il tempo è una grande medicina. Tornerà la musica e il piacere di divertirsi ma prima deve passare la paura, non avere più il timore di una persona che ti respira vicino... Penso che saranno le generazioni più avanti con gli anni a dare il la: in fondo, loro han passato momenti peggiori e oggi mordono il freno. I giovani cresciuti in questa emergenza avranno forse maggiori difficoltà, saranno portatori di altre abitudini, altri stili di vita».
E che farà la gente? Dimmi: come vedi Saluzzo fra qualche mese?
«Andremo tutti molto a spasso. Cercheremo svago soprattutto in montagna in cerca d'aria pura, più che sulle spiagge. L'arrivo dei vaccini sarà il vero momento della svolta, in primis per i bambini, che oggi soffrono per le restrizioni».
E tu tornerai a suonare e ti rimetterai il cappello di Ciaferlin?
«Ci conto. Ma la priorità oggi è la ripresa del lavoro, la riapertura delle fabbriche e delle officine, delle attività commerciali, delle professioni. Poi verranno anche la musica, gli spettacoli e il Carlevè».
Canzone di riferimento per la rinascita?
«Quella di Morandi che Joan Baez ha dedicato all'Italia qualche giorno fa: “Un mondo d'amore”. Che fa così: “C’è un grande prato verde / Dove nascono speranze / Che si chiamano ragazzi / Quello è il grande prato dell’amore”. Con tanti cari auguri a tutti i saluzzesi, ai ragazzi e ai diversamente giovani».