«Là dentro ho consumato il rosario»
Marco Basso di Dronero è il primo dimesso in zona. Guarito dal Covid-19. Il 52enne, capo-contabile della Banca di Caraglio, ha trascorso 10 giorni al Carle di Cuneo: cinque nel reparto Infettivi, i restanti in Pneumologia. Giovedì è rientrato a Dronero: è in quarantena, mangia e dorme separato dalla moglie. Dice: «Mi sono sentito piccolo. Tornare a casa è stato come rinascere». Come ha scoperto di avere il Coronavirus? «Rientrato dal lavoro, avevo i sintomi dell’influenza e mi sono messo in mutua. Tre giorni a casa, poi la febbre è sparita, ma non mi sentivo bene. Lunedì 16 marzo il mio medico mi ha visitato e per precauzione ha prescritto una radiografia urgente al torace. Sono andato al Santa Croce lo stesso pomeriggio. Avevo un brutto presentimento. E infatti ho portato ricambio, ciabatte, spazzolino e un rosario, che nei giorni a seguire avrei “consumato”. Ho salutato mia moglie, sono entrato al Pronto soccorso ed ho trascorso la notte più brutta della mia vita: all’una e mezza è arrivato il risultato del tampone: positivo al Covid-19. E trasferito subito al Carle». Come è stato curato?
«I polmoni erano perfetti, ma sono sempre stato attaccato all’ossigeno. Mi hanno somministrato due farmaci, tra cui l’anti artrite reumatoide di cui di sente parlare spesso, due volte al giorno. I dottori non entrano in camera, controllano dalla balconata esterna, ti parlano con l’interfono. È lo stesso paziente ad appuntare i valori: pressione, febbre, saturazione del sangue. E a somministrarsi gli anti-virali».
Il personale medico e sanitario come affronta l’emergenza?«Vivono scafandrati e fanno turni massacranti. Ma rispondono sempre con un sorriso: per un paziente è un incoraggiamento continuo. Ti senti veramente protetto. Tute, mascherine, visiere, tre paia di guanti, una volta vestiti non possono bere e mangiare per 8-10 ore di fila». Non temono il pericolo?«Certo che sì. Per quanto si bardino, quello che chiamano il “contatto sporco” è all’ordine del giorno. Basta una distrazione per infettarsi. Non si riconoscono più tra loro: si scrivono a pennarello il nome sulla tuta. Tutti gli operatori fanno l’impossibile, con grande umanità, ma hanno la necessità di liberare letti per i nuovi pazienti. Io sono riuscito “guadagnare” qualche giorno, ma altri pazienti sono stati dimessi in tempi più brevi».Prima di farla uscire hanno verificato che il tampone fosse negativo?«No, sono risultato ancora neutro e positivo negli ultimi tre test. Dopo la settimana di isolamento completo, il quadro clinico per i medici era buono: emogas e radiografia davano risultati incoraggianti, per loro ero un caso “chiuso”. Nella lettera di dimissioni mi è stata prescritta una volta a casa, solo al bisogno, la Tachipirina».Ha capito chi potrebbe averla infettata?
«Già al triage, quando i miei sintomi hanno fatto temere il peggio, ho capito che il virus è dappertutto. Il sistema sanitario ragiona, fin dal primo contatto, in termini di pandemia. Nessuno ha chiesto di indagare sul mio recente passato, non credo ci siano risorse e personale per farlo. Abbiamo anzitutto cercato di proteggere i miei famigliari».
Lei era stato in ospedale di recente, ci ha detto...«L’agonia di mia suocera, morta pochi giorni prima che mi ammalassi, ci ha più volte obbligati ad andare in ospedale. Ma escludo che sia stato questo lo scenario del contagio». Un flash di questa permanenza in reparto?«Il desiderio forte dell’acqua di fonte. In questi giorni, dati i razionamenti, ricaricavamo la bottiglia al rubinetto dell’ospedale. Il cibo invece è ricco e appetitoso: il nutrimento del corpo è un fatto decisivo per poter vincere questa battaglia, mi hanno spiegato i medici».