La diaspora degli ebrei croati Storia da riscoprire a Saluzzo testimonianza di Emanuele Ambrogio, ex docente del liceo: così aiutammo una famiglia a fuggire

La diaspora degli ebrei croati Storia da riscoprire a Saluzzo testimonianza di Emanuele Ambrogio, ex docente del liceo: così aiutammo una famiglia a fuggire
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Nel 1964/65 in prima liceo al “Bodoni” ho avuto come insegnante di italiano Emanuele Ambrogio. Passò l’anno dopo, con il suo primo incarico di preside, al “Gandino” a Bra (aveva sposato una Barelli), liceo allora frequentato da quella che sarebbe divenuta mia moglie e in cui avrei a mia volta insegnato per più di vent’anni.

Non ebbe quindi difficoltà a rilasciarmi nel febbraio 2014 la testimonianza che ora pubblico in occasione della Giornata della memoria, per rendere omaggio a suo padre, il geometra Ambrogio, e a Paolo Botto, che a ridosso dell’8 settembre 1943 organizzarono il salvataggio di una famiglia ebrea.

Non a caso Paolo Botto, autista di trasporto passeggeri, era il padre di Walter, allora studente del “Denina” e presto giovane partigiano in val Varaita nelle fila dei garibaldini. Anche Walter è una figura a cui mi legano tanti ricordi, a cominciare dalla militanza politica della giovinezza.

Gli ebrei di cui si parla nella testimonianza sono i saluzzesi Bianca e Ugo Levi, che pure ebbi come professore di matematica per qualche anno, e la famiglia Herscovich.

Questi non erano ebrei italiani, bensì croati, arrivati in città da circa un anno.

Il 6 aprile 1941 Germania, Italia e Bulgaria avevano invaso da tre lati il regno di Jugoslavia. Spezzata in breve tempo la resistenza dell’esercito slavo, i vincitori si spartirono il territorio: il grosso, la Serbia, toccò ai tedeschi, briciole ai bulgari e poco più agli italiani (un pezzo di Slovenia e il litorale dalmata).

In Croazia, dove esisteva un movimento locale di sicura fede fascista, anzi nazista come gli ustascia, fu creato uno Stato formalmente indipendente con duce (poglavnik) Ante Paveli?. Fanatico cattolico, costui volle liberarsi con la violenza dagli “intrusi”: due milioni di ortodossi e uno di musulmani, su un totale di 6 milioni di abitanti. Fra gli elementi da eliminare c’erano anche 37 mila ebrei.

Un simile programma trovava ovviamente la piena approvazione da parte tedesca e quindi nella “sfera d'influenza” germanica a nord ebbe piena attuazione. Nella zona meridionale, presidiata da truppe italiane, successe quanto sappiamo avverrà nel sud della Francia occupata, ad esempio a St. Martin Vésubie: i comandanti italiani si rifiutarono di inviare gli ebrei nei lager e comunque di consegnarli a ustascia e tedeschi.

Settemila persone si salvarono o unendosi ai partigiani di Tito o rifugiandosi nella zona dove era di stanza il nostro regio esercito.

Di qui nell’autunno del 1942 furono inviati come “internati civili di guerra” in Italia: in provincia di Cuneo i nuclei più consistenti, alcune decine di persone, furono mandati dal prefetto a Alba, Bra e Saluzzo: i podestà, talora controvoglia, erano tenuti, «se l'internato non era in grado di mantenersi, a provvedere dell'alloggio e del sussidio stabilito in lire 8 giornaliere e lire 50 mensili per l'alloggio; lire 5 per la moglie a carico e i congiunti maggiorenni e lire 4 per quelli minorenni». Dunque, mentre nel resto d’Europa partiva la “soluzione finale”, gli ebrei croati spediti in Italia vivevano tutt’al più i disagi comuni agli sfollati dai bombardamenti.

Ecco perché Herscovich all’approssimarsi delle truppe motorizzate tedesche a Saluzzo (erano le SS di Joachim Peiper) era sconvolto. Ricordava quanto era successo nel suo paese natale e aveva capito che con la dissoluzione del regio esercito era venuto meno lo scudo sotto cui fino allora si erano riparati. Il fascismo repubblichino, a differenza di quello del Pnf, non si sarebbe fermato all’emarginazione, ma sarebbe passato in combutta con i camerati tedeschi alla deportazione e allo sterminio.

A Saluzzo molti ebrei e molti antifascisti saranno arrestati e perderanno la vita per colpa di delatori o collaborazionisti.

Per questo Achille Ambrogio e Paolo Botto meritano di essere ricordati, per l’aiuto prestato a una famiglia ebrea con rischio della propria vita, moltiplicato dalla custodia delle carte di Herscovich.

TESTIMONIANZA DEL PROF.

EMANUELE AMBROGIO

(febbraio 2014)
Era il giorno 13 settembre 1943. Ero in ufficio con mi padre, Achille Amilcare Ambrogio, chi mi stava consegnando le commissioni, come sempre. Dall’età di dodici, tredici anni, ero abituato a spedire le lettere, a portare documenti e carte in Comune e in Pretura, in genere perizie.

Improvvisamente ci arrivò in ufficio il signor Herscovich.

Non avevo mai visto, e non vidi mai più una persona così agitata e disfatta: lo riconobbi subito, ma non era più lui. Ripeteva, meccanicamente, agitatissimo, la stessa frase: «Geometra, mi salvi». Perché tanta intimità? Perché noi eravamo molto amici dei Levi. Da quando non insegnava più al Liceo, in seguito alle leggi antiebraiche, non essendo più mio insegnante, veniva spesso con la signora da noi la sera a discorrere qualche ora. Così andò che un giorno la signora Bianca mi chiese di accompagnarla all’Istituto delle Orsoline, dove erano ospitati il signor Herscovich, la sua signora e la suocera.

Facemmo una nuova conoscenza. Divenimmo loro amici per via dei Levi. Quindi io subito gli domandai: «Ma perché agitarsi tanto proprio ora che il fascismo è caduto e sepolto?». Credevo di fargli coraggio. Ma lui subito rispose: «Proprio per quello». Subito non capii, ma poi ci arrivai. Finché eravamo alleati con la Germania i tedeschi non potevano intervenire direttamente sul nostro territorio, dopo la rottura invece sì, perché ci avevano già occupati militarmente. Herscovich era stato il primo a rendersene conto, perché aveva già visto altrove cosa succedeva.

Mio padre gli promise di fare tutto il possibile per salvarlo. Con l’aiuto del signor Paolo Botto trovò quella macchina che portò lui, la moglie e la suocera sul confine svizzero, dove, insieme ai bracconieri, passarono a piedi in Svizzera.

Gli consigliai quindi di tornare il mattino successivo. Herscovich tornò puntualmente con il famoso fascio di carte, che prendemmo in consegna e ci disse: «Qui c’è tutta la mia vita, passata e futura, se sarò ancora vivo». Poi ci salutammo.

Dopo il 25 aprile aspettammo. Ed Herscovich arrivò. Arrivarono anche i Levi. E fu festa grande. Ma non fu per molti altri, che non tornarono più.

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