La “tampa” scavata sopra Venasca per salvare i partigiani dai tedeschi Zzzzz zzzzzz

La “tampa” scavata sopra Venasca per salvare i partigiani dai tedeschi Zzzzz zzzzzz
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In ricordo di Giampaolo Pansa, pubblichiamo uno stralcio del suo contributo storico del 1964 per il libro “La Resistenza nel Saluzzese”, opera promossa dall’avvocato Manlio Vineis, poi ripresa nel volume “I resistenti” (edizioni Primalpe, 2000).

Una delle forme più diffuse in cui si espresse la solidarietà dei civili nei confronti del movimento di Liberazione fu l’ospitalità concessa ai “ribelli”: un tetto per ripararsi dal freddo, un po’ di paglia per dormire, pane, formaggio, polenta per calmare la fame.

L’esercito partigiano non aveva caserme né depositi; la vita alla macchia esigeva spostamenti continui; i finanziamenti erano sempre inferiori al bisogno, e nelle valli le possibilità di vettovagliamento erano scarse perché in montagna c’erano soltanto patate, poca farina di segala e poca carne. In queste condizioni, poter contare sull’aiuto dei civili, spesso non richiesto, si rilevò di essenziale importanza per l’esistenza stessa del movimento, specialmente nei due lunghi e rigidissimi inverni.

«Ricordo le due famiglie della Borgata Mattone - racconta il partigiano Mario Casavecchia (“Marino”) - una minuscola frazione di montagna sopra Venasca, in Val Varaita. Erano le uniche due famiglie rimaste lassù: poveri contadini che abitavano in casupole di pietra e fango, con il tetto d’ardesia; per vivere facevano scope di betulla che poi scendevano a vendere a Venasca».

«Una famiglia era quella di Costanzo Rinaudo, un uomo di 45 anni con moglie, due figlie e due figli. A qualunque ora e per qualunque cosa noi bussassimo alla sua porta non ricevemmo mai un rifiuto e così si comportò per tutto il tempo della lotta. Quando passavamo accanto alla sua baita, ci domandava se avevamo già mangiato e ci offriva quel che aveva in casa, latte, castagne, formaggio, patate. Senza esserne richiesto ci comunicava tutte le notizie che avrebbero potuto interessarci; le due ragazze ci fecero molte volte da staffette, portando ordini o materiale...».

«Costanzo Rinaudo aveva fatto nel suo orto una “tampa”, una fossa, e l’aveva messa a nostra disposizione se avessimo avuto bisogno di nasconderci. Ci accolse più volte durante i rastrellamenti, ed era tanta la fiducia che avevamo in lui che eravamo soliti parlare dei problemi delle formazioni in sua presenza e alla presenza dei suoi famigliari. Faceva tutto questo perché era antifascista, anche se non aveva un preciso orientamento politico. Uno dei suoi figli era prigioniero in Germania e lui ci ripeteva: “Faccio per voi quello che farei per lui”».

«L’altra famiglia era quella di Giuseppe Rinaudo, un contadino sulla cinquantina, semi-invalido per l’artrite, con moglie, una figlia e due maschi. Nel settembre del 1944, quando ci stavamo riorganizzando dopo il rastrellamento del 21 agosto, Giuseppe Rinaudo e Costanzo Rinaudo ospitarono un intero distaccamento, il “Giambone” della 181ª Brigata Garibaldi: una quarantina di uomini, stanchi, affamati, che per quasi tre settimane vissero presso le due famiglie, specialmente nella casa di Giuseppe Rinaudo che era più grande. Quei montanari divisero con noi il loro cibo e la paglia per dormire». «Un’improvvisa puntata dei fascisti o dei tedeschi avrebbe segnato la fine per quella borgata: ma era gente che sapeva a cosa andava incontro dandoci aiuto ed ospitalità ed era pronta a sopportare le rappresaglie. Durante un rastrellamento, mentre le pattuglie nemiche perquisivano le borgate. Giuseppe Rinaudo disse al partigiano Lelio Peirano (“King”): “Se i repubblichini vogliono dar fuoco alla nostra casa perché vi aiutiamo, pazienza!”».

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