«Voglio rendere onore a mia nonna centenaria»
Gentile direttore,
il 9 febbraio del 1920 nasceva in mezzo alla neve a Gabiola, frazione di Barge, mia nonna Domenica Salvai e quel giorno, insieme a lei, è cominciata anche la mia storia. Si aspetta sempre che le persone che amiamo se ne vadano per dedicare loro parole di amore e di stima, forse perché si diventa tutti più buoni quando si muore.
Io voglio invece renderti onore adesso che sei viva e lucida e puoi per certo ascoltarmi. Non so se sei la nonna più brava del mondo, di sicuro sei quella che io avrei voluto anche se non ci fossimo mai incontrate.
Sei quella che mi aspettava tutti i giorni per pranzo dopo la scuola con una pietanza diversa, quella dei pasticci in giro per casa perché mamma e papà mi sgridavano, mentre tu mi hai sempre lasciato fare. La nonna della semola quando avevo la febbre e tu premurosa mi accudivi, quella delle coperte rimboccate per tutta la notte perché «Martina, la schiena va sempre tenuta al caldo!».
Sei la nonna senza mai un filo di trucco, senza capricci, con i capelli bianchi e la gonna scura sotto al ginocchio. Sei quella forte, fortissima, lavoratrice instancabile, ostinata e oltremodo caparbia.
Sei la nonna che alle tre di notte si affacciava alla finestra per controllare se la mia macchina era in cortile e io ero già rientrata a casa.
Nessuno, nonna, mi amerà mai come fai tu, nessuno mi amerà mai in questo modo così profondo e disinteressato. Ed è qui che la vita mi e ci insegna: l’amore ci salva davvero, ma solo quando si smette di aspettarsi qualcosa in cambio. Proprio come hai fatto tu tante volte, quando hai perso la tua mamma a quattro anni, il tuo papà a sedici e tua figlia Margherita a soli diciassette giorni.
Non ti sei ribellata, non hai maledetto il destino, non ti sei nemmeno arresa, ma hai accolto la tua vita così com’era con umiltà e fiducia. E lei piano piano si è fatta perdonare, non ti ha restituito quello che ti ha tolto, ma ti ha fatto bastare quello che avevi, senza mai toglierti grinta e sorriso, senza mai spegnere la tua luce e la tua voglia incredibile di vivere.
Per questo io fortemente credo che quel 9 febbraio di cento anni fa c’ero già anch’io scritta da qualche parte, perché senza anche solo mezzo dei tasselli che ci hanno preceduti noi non saremmo adesso quello che siamo. Tu sei il tassello più antico e prezioso a cui io posso attingere, il mio patrimonio inestimabile, e la cosa veramente pazzesca è che sei qui viva, oggi, a ricordarmi e a ricordarci che per svegliarsi felici non serve essere né ricchi, né particolarmente belli, né troppo intelligenti o istruiti, ma occorre semplicemente avere fiducia. Che «non c’è niente di più bello, Martina, che ballare. Ballare non ti fa più pensare a niente, balla tanto, balla sempre!».
Hai saputo scommettere sulla vita e sulla sua naturale propensione al bene, nonostante tutto, e hai vinto, nonna! Hai vinto questo faticoso e meraviglioso secolo di vita, hai vinto i tuoi figli che ti amano incredibilmente e che mi insegnano che anche a settant’anni una mamma resta una mamma e non la si vuole perdere per niente al mondo e hai vinto una quantità di amore e di affetto che ti è senz’altro tornato tutto indietro quadruplicato.
E poi hai vinto me e mi hai vinto per sempre perché io sono proprio te in uno spazio temporale nuovo e diverso... La memoria siamo io e te, la stessa anima due generazioni dopo, cominciata quello stesso giorno di tanti anni fa in una borgata sperduta della provincia di Cuneo.
E allora sia benedetto quel 9 febbraio del 1920, siano benedetti tua mamma Teresa e tuo papà Chiaffredo, siano benedetti questi “100 splendidi soli” che ti hanno portata in groppa alla vita fino a me.
Ti voglio bene, nonna, ora e sempre.