«Non bisogna arrendersi e credere che questa sia la nuova normalità» genitori in piazza per chiedere la riapertura della scuola. parlano i ragazzi
«Non vi stiamo chiedendo di andare al cinema o a mangiare una pizza con gli amici, vi stiamo chiedendo di poter tornare a scuola». Con queste parole, la piccola alunna di seconda media, fa luccicare gli occhi dei presenti.
AI PIEDI DI PELLICO
È domenica pomeriggio, una domenica come le tante trascorse in zona rossa, chiusi in casa guardando la tv. Oggi però è diverso. Ai piedi della statua di Silvio Pellico, ci sono molti bimbi con le loro mamme. I più piccoli sorridono divertiti, i più grandi hanno lo sguardo perso nel vuoto.
Le mamme stanno organizzando la piazza, piccole scarpine a terra, a sostegno di disegni e cartoncini con frasi scritte dagli alunni. Saluzzo scende in piazza per protestare contro la Dad, e per tornare a scuola.
Al centro della via, un bambino fatto di stracci con una maschera in volto, inespressiva ed assente, di fronte ad un pc. Specchio di ciò che i piccoli stanno vivendo.
Iniziano i vari interventi dei presenti, dall'insegnante di un istituto superiore, ai genitori. «Mi chiamo Michela, sono mamma di tre bambini piccoli, di cui due alla primaria e uno all'infanzia. Loro in questo momento si stanno vergognando di me - dice una mamma - ma io lo sto proprio facendo per loro. Per fargli capire che vale sempre la pena esternare la propria opinione. Io sono qui per me, e per tutti quelli che oggi non ci sono».
FIGLI CHIUSI IN CASA
«Io sono mamma di quattro bambini, e vi assicuro che è molto difficile per me gestire tutto, ma è ancor più difficile vedere mio figlio adolescente a casa. Non vuole più uscire per nessun motivo. In questo momento sono qui anche per lui. Vorrei poter fare qualcosa per svegliarlo da questo incubo».
Tutto questo fino a quando gli studenti hanno preso coraggio.
La prima a farsi avanti è una ragazza, che con sicurezza prende in mano il microfono e guarda dritto davanti a se: «Vorrei potervi dire che studio ingegneria al Politecnico di Torino, ma la realtà è che io il Poli non l'ho mai visto nemmeno da lontano. Non conosco i miei compagni e non vivo l'esperienza universitaria. Quando lavoriamo a gruppi, ormai teniamo le telecamere spente, non abbiamo più voglia di vederci dallo schermo di un pc. Ma la cosa più brutta, è che ci stanno facendo credere che questa sia la normalità».
Stessa cosa per una ragazzina dagli occhi dolci, che intimorita confessa che anche lei fa l'università, ma che non è questo il problema: «Ciò che più mi dispiace è il fatto che i miei fratelli non possano avere la stessa opportunità che ho avuto io alle superiori. Guardando in viso i professori capivo molto. Osservando le espressioni, che trapelavano, mi trasmettevano la voglia di imparare. Cosa che da un pc è improponibile».