La storia Segnalato già nel 1835 a Torino, il morbo vent’anni dopo fa strage in città e nelle campagne Autunno 1854, il colera colpisce Saluzzo Morti sepolti in fretta e caccia all’Untore
Il 27 settembre 1854 la cattedrale di Santa Maria di Saluzzo registrò la morte di un uomo di trentatré anni, Carlo Cunaccia, originario di Boccioleto Varallo (Valsesia), di professione garzone libraio, residente in casa Lobetti. Affiancato al nome la causa del decesso: colera. Da quel giorno le morti per questo morbo crebbero in modo esponenziale.
Il colera era una malattia endemica di alcune zone asiatiche, in particolare dell’India, che aveva già fatto la sua comparsa in Europa nel 1831, propagato dall’esercito russo prima in Russia, poi in Polonia e infine in tutta l’Europa, manifestandosi in Ungheria, Germania, Inghilterra, Spagna e Francia. Dal meridione della Francia si era diffuso poi anche in Italia.
Nel 1835, accertata la presenza del colera a Tolone, il Re Carlo Alberto aveva istituito cordoni sanitari e chiuso le frontiere con la Francia, ma i provvedimenti non erano serviti e nel mese di agosto l’epidemia di colera aveva invaso tutto il Regno di Sardegna, colpendo in particolare Genova, Cuneo, Torino, Saluzzo e Racconigi.
MALE SCONOSCIUTO
Il male, sconosciuto ai medici, dava sintomi molto simili all’avvelenamento: forte diarrea, accompagnata da dolori addominali e vomito. Seguiva la disidratazione, cessava l’emissione di urina e arrivava il tormento della sete. Il volto si faceva pallido e sudato, gli occhi si infossavano nelle orbite; subentrava un’intensa sensazione di freddo e nel giro di poche ore sopravveniva la morte.
Il nome, con cui veniva denominato questo morbo sconosciuto, derivava dal greco “Cholé=bile”, poiché la malattia portava a scaricare gli umori del corpo e produceva nel malato lo stato di collera. Soltanto nella 2ª epidemia del 1854 l’anatomista italiano Filippo Pacini identificò la causa della malattia in un batterio a forma di virgola, che venne studiato dettagliatamente, molto più tardi, nel 1884, dal tedesco Robert Koch.
PANDEMIA A ONDATE
Sei furono le pandemie di colera in Europa nel secolo XIX e mieterono un alto numero di vittime: famiglie intere vennero cancellate, paesi e città subirono una drastica riduzione demografica, con conseguenze notevoli sul piano socio-economico. Proprio per la sua natura misteriosa, il colera fece sorgere quasi dappertutto il sospetto della presenza di presunti avvelenatori, provocando anche sollevazioni di massa.
Ricomparve la figura dell’Untore, così tanto presente nella peste del 1630. Si aprì così una vera propria caccia agli Untori: la superstizione e il fanatismo trovarono terreno fertile per la loro diffusione, non solo nelle classi povere, ma anche tra i più abbienti e le persone di cultura: Giuseppe Giusti, poeta e scrittore, scriveva: «Il morbo ah! Credilo - Idolo mio! Ci vien dagli uomini - Non vien da Dio!»
Il colera divampò in Saluzzo improvviso e senza far sconti. La gente, impreparata e senza difese mediche di sorta, ne venne colpita a domino.
FUNERALI SENZA SOSTA
Da quel primo caso del 27 settembre, nel giro di pochi giorni, la cattedrale di Santa Maria iniziò a registrare, senza sosta, i morti di colera che si provvedeva a seppellire nel cimitero della città, entro poche ore dalla morte. Il picco dei decessi fu raggiunto nella terza settimana di ottobre, toccando quota 39.
Poi, nel mese di novembre, i numeri cominciarono a scendere e il morbo a mietere sempre meno vittime, fino a scemare del tutto. I decessi registrati in parrocchia furono alla fine 133 di cui 78 maschi e 55 femmine. La maggior parte delle vittime aveva un età compresa tra i 50 e 70 anni. Si trattava per lo più di contadini, giornalieri, donne di casa. Non mancarono bambini e giovani militari.
RICCHI E POVERI
La grande maggioranza della gente più abbiente era riuscita a scampare all’epidemia, isolandosi in luoghi e contrade dove non c’era pericolo di contagio. Inoltre la dieta alimentare migliore l’aveva resa più resistente a contrarre la malattia e più incline alla guarigione. Non per nulla il paese più falciato risultò Scarnafigi, a pochi chilometri da Saluzzo, dove risiedeva la popolazione più misera e povera. A soccorrere questi infelici colerosi si erano prodigati, in special modo, un certo medico Bracchi, il Municipio e il Comitato di beneficienza.
In un articolo della Specola delle Alpi della seconda metà del mese di settembre, sul colera a Scarnafigi, si esortavano le autorità competenti, per prevenire «una recrudescenza del morbo e evitare mali peggiori», a trasportare i parenti dei morti di colera nei locali dell’ampio e antico castello disabitato e anche i malati di diarrea, sottolineando che «se all’ombra dei castelli crebbe per secoli la miseria nella classe più laboriosa, è cosa giusta e sacrosanta che nei giorni luttuosi di un’epidemia che fa strage precisamente sulla stessa classe utile alla società, questa abbia almeno il diritto di fare che il povero vi trovi un salubre ricovero ed un pronto alleviamento ai suoi mali».
GRAZIE A SAN CHIAFFREDO
Quando finalmente l’epidemia si dissolse molti saluzzesi attribuirono la sua fine alla devozione dei cittadini sia verso il loro valoroso patrono San Chiaffredo, la cui testa era stata «illuminata, incensata ed inchinata» per molte sere di seguito, sia alla Signora delle Grazie, invocata con devozione perché intercedesse nell’allontanare il morbo dalla città. Di questo diede atto anche il giornale che scriveva: «Se Saluzzo non ha da lamentare maggior numero di vittime, e se molti uscirono dal lazzaretto risanati, lo si debbe soprattutto alle assordanti scampanate, ai rosari, agli oremus, che vennero recitati o più o meno sonoramente cantati».
“Dal Rosa al Viso”